La incontro
tutte le sere alla fermata dell'autobus. Mentre io arranco su una
bicicletta da uomo in stile secondo dopoguerra, lei saltella da un
piede all'altro, inutilmente infagottata
contro il freddo invernale.
Ci siamo conosciuti tempo prima ad una
cena con amici comuni. La prima volta che a quella fermata l'ho
rivista non l'ho salutata per paura di non essere ricordato. Da
allora, per l'imbarazzo di scoprire che invece mi
ha riconosciuto sin dal primo momento, tiro dritto abbassando lo
sguardo.
Quel giorno tornando dal lavoro, ancora
più tardi del solito e stanco, inadeguatamente vestito per le
intemperie del lungo tragitto ciclesco, sono però felice. Per l'aria
fredda che mi entra nei polmoni e mi risveglia dal torpore delle
scartoffie. Per la fame crescente che sa di essere soddisfatta a
breve. Perché in bici posso zigzagare canticchiando.
E questo buonumore mi dà coraggio.
Quello necessario a superare l'imbarazzo di una figura da
maleducato ex post. A sovrastimare incosciente le mie capacità
fisiche. A lanciarmi in una proposta indecente senza curarmi di un
rifiuto.
Mentre
ripeto a squarciagola Terra promessa faccio lo slalom tra i
tombini, in frigo ci sono gli avanzi dello spezzatino del giorno
prima, dalla bocca emetto vapore acqueo che si dissolve nella luce
dei lampioni. Sotto uno di questi, alla fermata del 14, sta lei. Esile, delicata e bellissima. Fissa triste un cartello di cambio
percorso causa cantiere in corso.
Non ho il tempo di pensarci e neanche
lo faccio. Istintivamente tiro il freno e pianto i piedi a terra
proprio di fronte a lei. Mi guarda, la guardo. Le indico la canna
della bici. Mi guarda e poi guarda il cartello dei lavori. Mi guarda
di nuovo e poi guarda l'orologio. Infine mi fissa dritto negli occhi
e mi fa cenno di sì.
A fatica troviamo un equilibrio. Lei si
siede sulla canna, le gambe ciondolanti, le mani in grembo. Io col
busto eretto, gomiti larghi a circumnavigarla, pedalo a gambe
divaricate. Entrambi senza parlare, concentrati sulla strada.
Al primo colpo di pedale sbandiamo
pericolosamente a sinistra, lei non batte ciglio, io fingo
disinvoltura. Basta però prendere il ritmo e tutto fila via come se
lo facessimo da una vita. Per evitare le auto, e i pericoli devio per
i vicoli del centro. Supero con destrezza i fittoni, evito gli
innamorati ubriachi che si baciano all'uscita dei locali, maledico in
silenzio i natali dello scooterista contromano.
All'ennesima buca oscilliamo
pericolosamente, prima verso il marciapiede di destra, poi decisi
verso il centro strada. Reclina la testa e mi mostra il collo pallido
per il freddo mentre si sbilancia all'indietro. Faccio forza con
l'avambraccio che la circonda per non lasciarla scivolare giù.
Avvicino il mio viso al suo, mi puntello sull'asfalto con il piede
destro. D'istinto con le braccia mi si àncora al collo. Spalanca gli
occhi neri, le pupille bruciate dal fuoco che dentro vi sta. Respiriamo la
stessa aria calda. Sfioriamo un cassonetto
dell'indifferenziata ma riusciamo infine a ritrovare un nuovo
equilibrio.
Proseguiamo. Abbracciati e in silenzio.
Attraversiamo una Strada Maggiore
deserta, la ciclabile nel cortile interno dell'ospedale, il buio del
parco dell'Arcobaleno. Mi fa cenno di fermarmi all'angolo con lo
stradone, di fianco al ponte della ferrovia. Scendo dalla bici, ma
dal lato sbagliato, così che finisce per frapporsi tra noi.
Allunga ancora una volta le braccia verso di me. Mi sistema il bavero
della cappotto e si avvicina. Istintivamente chiudo gli occhi. Mi
bacia il naso. Passa il treno che mi culla per un tempo infinito con
il suo sferragliare ritmico. Quando torna il silenzio riapro gli
occhi, il naso ancora caldo. Lei non c'è.
Il sospiro vaporoso si dissolve nella
luce dei lampioni. Risalgo in bici. Calco il cappello di lana sino
agli occhi e riparto zigzagando, lo spezzatino mi aspetta in frigo.
Domani è un'altra notte.