mercoledì 17 aprile 2013

Il peccato originale

La ruota, sfregando sul parafango, risuona come una fresatrice. La catena è arrugginita. Il cerchione anteriore ovalizzato. I pattini dei freni sono consumati.  La vista è annebbiata dal sole. A distanza svetta il palazzo bianco che ospita il mio ufficio. Ingobbito spingo sui pedali.

Improvvisa una folata di vento. Un'ombra veloce mi sorpassa. Con l'occhio che a fatica si abitua, la vedo. Ritta ed elegante. Gambe lunghe pedalano senza sforzo. L'aria si apre in due e lei scivola via,
spinta dagli angeli. Le fanno da velo morbidi capelli biondi con leggeri striature più scure.

Mi anticipa nel parcheggio delle bici e per un attimo si volta verso di me. Di una bellezza sacra e profana allo stesso tempo. Come quella di certe Madonne rinascimentali. E' la mia Lucrezia Buti, e per un attimo mi sento Fillippo Lippi.


Litigo con la tasca per le chiavi del lucchetto. Il peccato originale è non averle tenute nella giacca. Il tempo di maledire e lei è già scomparsa.

L'ascensore di destra sale sino all'ultimo piano.
Con quello di sinistra scendo nell'interrato.

lunedì 15 aprile 2013

Versi e direzioni

L'alba incendia l'orizzonte, lingue di fuoco colorano il cielo. 

Lo vedo nello specchietto retrovisore. 

Come spesso accade, la mia direzione è giusta; il verso, sbagliato.






domenica 14 aprile 2013

Brava, ché non hai pianto

In seconda elementare mamma ottenne una supplenza di una settimana in classe mia. Io non lo sapevo e quando la vidi entrare in aula restai un po' interdetta. Pensavo d'essermi scordata la merenda. I libri no, perché quelli non me li avrebbe portati, peggio per me. Ma il cibo, quello sempre. Vive(va) nella certezza che sarei morta d'inedia fulminante saltando un pasto.

Io stavo al primo banco, perché ero nana e ancora non s'erano accorti della miopia. Superato il primo momento d'alienazione da Inception, presi coraggio. Ne presi troppo.

Mamma iniziò a dettarci una poesia. Io, freneticamente eccitata per il potere riflesso che poteva derivarmi dall'essere temporanemante figlia della maestra, resistetti fino alla terza riga. Quindi mi alzai di botto e, con fare da bulla (ma pur sempre nana), dissi: "Mamma, è vero che alla ricreazione ci fai andare fuori?" In fondo ero anche stata altruista, promuovendo la vertenza sindacale di 25 settenni. Ma la mamma padrona non ne ne fu impressionata.

"Vai in castigo". "Eh???" "Non ci senti? Vai in castigo, cammina. Hai interrotto il dettato senza motivo. Hai disturbato. Dietro la lavagna" "Ma, mamma..." "Niente mamma. Sono la Maestra (sentii il peso della maiuscola come uno schiaffone)". I compagni stavano zitti. Forse s'aspettavano che difendessi ancora un po' il diritto del sangue. Ma io conoscevo gli occhi di mamma quando non voleva sentire ragioni. 



A testa alta, dietro la lavagna. La spiavo con la coda dell'occhio, mentre continuava a dettare agli altri. Speravo mi guardasse, per sollevarmi dal peso della figuraccia. Davanti a tutti. Niente. Mi liberò alla ricreazione (per mangiare, ovviamente). 


Tornai a casa con lei. "Maestra, grazie eh?" "Adesso non sono la Maestra. Sono mamma" "Vabbè, ma mi hai messo in castigo" "Hai disturbato" "Adesso mi prenderanno in giro" "Ti avrebbero preso più in giro se non ti avessi fatto nulla. E per tutto l'anno" "E non potevi mettermi la nota?" "Sì, certo. Per firmarla io. Ricordati che noi siamo tante persone, e se sbagli il momento, devi imparare a non farlo più". "...Ma la poesia? La devo studiare lo stesso?" "Certo. E devi pure ricopiarti la parte che non hai scritto" "per colpa tua" "No, per colpa tua. E comunque brava ché non hai pianto".


Ester

sabato 13 aprile 2013

Pan per focaccia

Esco dall'Archiginnasio, c'è il sole. Nell'aria il profumo delle studentesse e la voglia di andare al parco.
Ti cerco con lo sguardo e non ci sei. 
Avresti dovuto esserci invece. Lì dove ci eravamo lasciati. I patti erano quelli.




Facciamo un passo indietro. Ho iniziato io tradendoti. 

Te l'ho anche confessato, senza pudore, ma sono tornato da te immediatamente.
Mi hai restituito pan per focaccia. Non posso protestare.

Nel tuo stile, hai saputo trovare il momento migliore. Lo hai fatto togliendomi le certezze all'improvviso, proprio quando iniziavo a fidarmi. Come in fondo ad una discesa pazza percorsa ad occhi chiusi, sapendo di poter frenare all'ultimo.




Auguro a te e all'incauto con cui ti accompagni da questo pomeriggio una fine dolorosa al primo incrocio. Quella fine che tante volte, per la tua propensione al rischio, hai fatto rischiare a me.

L'ultima ieri pomeriggio, con lo schianto lungo la discesa dei garage.

Dyna, vaffanculo.
Tu e il ladro.

mercoledì 10 aprile 2013

(Maledette) telefonate romane

Serata perfetta. La conosco ad una festa.
Primi timidi sguardi sfuggenti e poi l'appuntamento tacito al tavolo degli alcolici.
Un'oliva, le patatine, diversi bicchieri di bianco.
Le risate sceme in terrazzo guardandoci negli occhi. La prossemica che va a farsi benedire.
Poi quella maledetta telefonata romana.

E lei è andata via con un altro.


Dedicato a tutti quelli ai quali una telefonata romana ha portato via il sogno e le certezze.
Liberamente tratto dal post di Matteorenzi che per onestà intellettuale di seguito riproduco:

Fare il delegato regionale per eleggere il Presidente della Repubblica non era un mio diritto. Lo avrei fatto volentieri, certo, orgoglioso di rappresentare Firenze e la Toscana. Le telefonate romane hanno cambiato le carte in tavola, peccato. Nessun dramma però, in politica può succedere. Mi spiace soltanto, la doppiezza di chi parla in un modo e agisce in un altro. Ai doppiogiochisti dico: forse non riuscirò a cambiare la politica. Ma la politica comunque non cambierà me. Io quando ho da dire qualcosa lo dico in faccia, a viso aperto e non mi nascondo dietro i giochini.”

lunedì 1 aprile 2013

La palla a spicchi e l'origine del mondo

L'arbitro guarda prima a destra e poi a sinistra. Carica il braccio e lancia la palla in alto.
Prima che inizi  la parabola discendente, le tensioni accumulate sino a quel momento si scaricano in un brivido di adrenalina.
 
Tutto inizia due ore prima, quando arrivi al palazzetto che neanche hanno aperto i cancelli.
Passeggi nervosamente. Attacchi briga con le guardie ai varchi, tanto per far passare il tempo. Compri la sciarpa, l'ennesima, che poi regalerai a qualche amico.
 


Finalmente ti fanno entrare, fai lo scalone di cemento armato a tre a tre. Una volta dentro, solo, puoi sceglierti il posto migliore. Non troppo in basso, ché davanti avresti quelli della stampa. Né troppo in alto, perché altrimenti tanto valeva arrivare all'ultimo. Al centro sarebbe perfetto, se non fosse per gli spifferi di aria gelida, anche a maggio, che vengono dalle porte antincendio, rigorosamente spalancate.
  


Dopo qualche minuto qualcuno inizia a riscaldarsi. Primi arrivano i ragazzini, quelli che servono a fare numero e raccogliere gli asciugamani dei giocatori che entrano in campo. Come loro, ne approfitti per riscaldarti anche tu. Provi la posizione seduta, quella in piedi, lo scatto improvviso a pugno chiuso e l'urlo liberatorio. Tanto non ti vede nessuno. Tranne i ragazzini. Ma loro non contano.
   

Dopo un tempo interminabile arrivano gli altri. Il pivot lungo e sottile e il play così piccolo che per un attimo fa credere anche a te che potresti giocare a basket. Poi la guardia, che ogni volta che segna cadendo fa due flessioni per impressionare gli avversari. E l'ala piccola, così giovane che potrebbe essere tuo figlio. Ultima l'ala grande, che ha braccia lunghe e intelligenza d'altri tempi. Finalmente iniziano a fare la treccia e provare i tiri. Da sotto, dalla media, da lontano. Non entrano, meglio così: vorrà dire che entreranno tutti in partita. Entrano, ancora meglio: vuol dire che oggi la mano è calda e non ce n'è per nessuno. Guardi negli occhi i giocatori per leggerne l'umore e la voglia. 


Ad un certo punto escono tutti. Il palazzetto, intanto pieno, si zittisce. Dopo un attimo in cui trattieni il respiro, i giocatori rientrano correndo in fila indiana. Go West a tutto volume dagli altoparlanti che gracchiano. Sei in piedi ad applaudire e così il tuo vicino e tutti gli altri vicini, sino alla curva opposta.



Finito il rito dell'appello, il pivot prova i liberi mentre tutti gli altri vanno verso la panchina. Ne tira sino a quando non entrano due di fila. A volte può essere un tempo piuttosto lungo. Vedi mani che si battono e urla feroci gridate da pochi centimetri. I cinque prescelti tolgono la casacca da allenamento e vanno verso il centro del campo. 

L'arbitro guarda prima a destra e poi a sinistra. Carica il braccio e lancia la palla in alto.



Tremi con la stessa energia con la quale il bing bang ha dato avvio al mondo.

Si inizia.