venerdì 28 novembre 2014

Quando eravamo ciclisti


Un'estate di molti anni fa, il '92 forse.
Ci convinciamo d'essere ciclisti.

Con un amico esco in bici tutti i giorni. Ci arrampichiamo sulle colline che circondano Montoro, su per i boschi. Se un giorno uno non può, l'altro ne approfitta per un allenamento supplementare. Perché poi il gioco è staccarsi in salita e attendere allo scollinamento. 'Aspetti da tanto?'. 'Ma, no, figurati. Solo 2 minuti e 27 secondi'.

Due le tecniche che vanno per la maggiore. La prima, classica, consiste nel cercare un tornante ripido, scattare sui pedali e resistere ai muscoli in fiamme sino a quando l'altro non è più in vista. E' importante la frequenza, altissima, e il rollio. La bici diventa un attrezzo ginnico, un cavallo con maniglie, sul quale volteggiare ed esprimere così la potenza che costringe il rivale alla resa.

La seconda tecnica, più rischiosa ma cattiva, finalizzata ad infliggere un'umiliazione definitiva, è l'allungo progressivo. Si aspetta un rettilineo per passare ad un rapporto più duro. Con perfetto bilanciamento, senza variare il ritmo della pedalata, si aumenta progressivamente la velocità. E' importante non voltarsi mai e conservare sulla faccia un sorriso da nuoto sincronizzato che dissimuli la fatica.

Oggi ritrovo le sensazioni di quell'estate.
E' sera, manca poco all'ora di cena. Torno da lavoro, un'altra bici mi precede di qualche metro. Nel parco, dove la ciclabile con una leggera piega a destra copre un dislivello di quasi un metro, aspetto che esausta cali il ritmo e di potenza la supero inesorabilmente. Scampanello, perché noti la progressione. Nulla può, ingobbita sulla graziella anni '70, due borse della spesa attaccate al manubrio, i capelli grigi bagnati dalla foschia e dallo sforzo.

L'aspetto al semaforo sul viale. 'Posso aiutarla, signora?”. “No”, mi risponde fiera e sprezzante.

Riparto. Nel '92 mi piaceva di più.

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